Partiamo dall’Abc: cos’è un archetipo?
L’argomento è molto complesso ma, sintetizzando, possiamo dire che gli archetipi sono antichi modelli di relazione e personalità che costituiscono un’eredità condivisa per tutti i membri di una data collettività se non, addirittura, per tutto il genere umano.
La costruzione dei personaggi di un romanzo è sempre costituita da archetipi. Non importa se questa trasposizione avvenga in modo voluto e consapevole oppure inconscio: per l’essere umano è impossibile stancarsi dei modelli di riferimento che fanno parte del proprio bagaglio culturale.
Per tale motivo, rimango sempre sorpresa quando gli autori dicono che hanno difficoltà ad applicare nei loro romanzi gli archetipi descritti da Christopher Voegler nel suo celebre libro “Il viaggio dell’eroe”. Una delle obiezioni che sento con maggiore frequenza, è la seguente: è più facile utilizzare gli archetipi quando si sta scrivendo un romanzo fantasy, o comunque ambientato in un mondo immaginario. Se invece parliamo del mondo in cui viviamo, diventa più difficile, perché non abbiamo a che fare con mostri e supereroi, ma con persone comuni, che devono essere caratterizzate in ogni minimo dettaglio, devono avere una personalità definita e molteplici sfumature caratteriale. In particolare, il rischio che sentono di correre è quello di cadere nel cliché, ovvero in una visione eccessivamente semplicistica del mondo reale.
Io non concordo con questa visione per due motivi:
- anche nei fantasy i personaggi vanno caratterizzati;
- noi siamo circondati di archetipi, in ogni singolo giorno della nostra vita quotidiana.
Ciascuno di noi ha un ruolo narrativo nelle esistenze delle persone che hanno a che fare con lui. Possiamo essere mentori, ombre, mutaforme. Possiamo mutare il nostro ruolo con il passare del tempo. Ma finiamo sempre per lasciare agli altri qualcosa di noi.
Non ci credete?
Per dimostrarvelo, ho deciso di fare un esperimento, ovvero applicare gli archetipi di Voegler a uno degli ambienti che la maggior parte di noi frequentano: l’ufficio.
Gli esempi che non sono tratti da libri e film specifici sono del tutto inventati. Ogni riferimento a fatti persone e cose è puramente casuale… o forse no! 😉
L’archetipo dell’eroe
L’Eroe è colui che muove la storia e compie il viaggio che lo porterà a evolvere. Spesso mostra riluttanza a mettersi in gioco; talvolta è addirittura obbligato dal mentore, dall’antagonista o da altri archetipi narrativi. Ha in genere un punto debole su cui può essere colpito, e deve confrontarsi con una serie di prove (che possono essere fisiche o psicologiche), prima di raggiungere la trasformazione e guadagnare adeguata ricompensa. Nella maggior parte dei casi è il protagonista della storia. Nei romanzi corali, ci possono essere più eroi.
Chi può rappresentare l’archetipo dell’eroe in un contesto lavorativo?
Nei chick-lit, che ultimamente vanno molto di moda ma che io, salvo rare eccezioni, non apprezzo in modo particolare, l’eroina è sempre una donna in carriera un po’ sfigata che si innamora del collega molto “phygo” e inizialmente stronzo, o del capo, altrettanto stronzo. Esempi? “Il diario di Bridget Jones”: sarà sovrappeso e impacciata ma si tromba, nell’ordine, Hugh Grant, Colin Firth e Patrick Dempsey. Scusate se è poco! Oppure, “Guida astrologica per cuori infranti”. La serie non è granché, ma il libro è davvero divertente. Qui, la protagonista Alice cerca l’anima gemella basandosi sulle affinità astrologiche. Ma quando arriva Davide, un antipatico tagliatore di teste, fa di tutto per evitare di scoprire il suo segno zodiacale…
Però l’eroe, o l’eroina, possono anche vestire dei panni meno rosei, basti pensare a tutti i film e i romanzi che negli ultimi anni hanno affrontato il tema del precariato. Mi viene in mente, per esempio, “Tutta la vita davanti”, film di Paolo Virzì (approfondimento su Paolo Virzi) del 2008, con Isabella Ragonese e un sempre Grande Elio Germano. Oppure, “Volevo solo dormirle addosso”, romanzo di Massimo Lolli del 1998, dal quale è stato tratto l’omonimo film con Giorgio Pasotti: in questo caso, è proprio il protagonista a essere un tagliatore di teste….
L’archetipo del mentore
Il mentore per eccellenza è Obi Wan Kenobi: rappresenta la guida che aiuta, allena o istruisce l’eroe. È colui che lo conduce lungo la strada della trasformazione, spingendolo ad agire. Talvolta, muore o scompare prima della prova decisiva, durante la quale il protagonista deve dimostrare di sapersela cavare da solo. Non sempre è identificato con un personaggio, ma può essere anche un concetto: la fede religiosa, la coscienza interiore ecc.
Chi può rappresentare l’archetipo del mentore in un contesto professionale?
Il mentore in ufficio potrebbe essere un collega più anziano e più saggio, qualcuno il cui carattere compensa, in un certo senso, quello dell’eroe, perché riesce a mettere in evidenza le sue debolezze e i suoi limiti. Oppure, può essere una persona completamente estranea al contesto in cui l’eroe si muove, ma dotato delle competenze e delle risorse per poterlo aiutare.
Al centro di una vicenda ambientata in un contesto professionale potrebbe avere anche una certa rilevanza l’assenza di mentore. Sfido chiunque di voi a non essersi mai trovato completamente solo in un ufficio in cui la maggior parte dei colleghi sono ostili. È una prova che tempra il carattere, che mette a nudo le proprie ferite. Oppure, il mentore può cambiare ruolo, e diventare in certi momenti antagonista. Esserci, e poi sparire. Il rapporto con lei non dev’essere necessariamente armonioso e, a volte, il personaggio più pure mandarlo affanculo.
Anche il mentore può compiere un percorso evolutivo, confrontarsi con le proprie ombre, essere il diretto protagonista della sottotrama che lo riguarda. Anzi: questo è addirittura consigliato quando gli si vuole dare delle sfaccettature che aiutino a caratterizzare il personaggio. Occorre infatti ricordarsi che un archetipo non è un cliché, e che ogni personaggio può – anzi, deve! – essere caratterizzato da molteplici sfaccettature, essere animato da luci e ombre.
Se sei interessato all’argomento prova a leggere “GLI ERRORI PIÙ COMUNI DEGLI SCRITTORI EMERGENTI“
L’archetipo del guardiano della soglia
Il Guardiano della soglia è il Caronte della situazione, colui che funge da anello di congiunzione fra il mondo ordinario e il mondo straordinario (e, per il nostro esempio, tra il mondo fuori dall’ufficio e il mondo dentro l’ufficio). Può rappresentare un ostacolo per l’eroe, che deve superarlo per poter iniziare la nuova avventura. Alcune volte, può essere percepito come un nemico, ma in un certo senso dona energia all’eroe, che attraverso il confronto o conflitto con lui si mette alla prova, cresce e migliora. Oppure, il suo ruolo può fondersi con quello del mentore. Basti pensare alla medium interpretata da Whoopi Goldberg in Ghost: Oda Mae Brown appresenta l’unico legame esistente fra il mondo dei vivi e quello dei morti, dunque è un guardiano della soglia a tutti gli effetti. Però è anche guida e consigliera: diventa infatti l’unica alleata di Patrick Swayze nello svolgimento della sua missione, ovvero sciogliere i nodi irrisolti per poter riposare in pace.
Chi può rappresentare l’archetipo del guardiano della soglia in un contesto professionale?
Mi vien da sorridere: la prima persona che mi è venuta in mente è il portinaio. Nell’azienda in cui lavoro part-time in parallelo alla libera professione, il nostro guardiano si chiama Pietro, e io scherzo sempre con lui dicendo che è San Pietro, che costudisce le chiavi dell’azienda come il suo omonimo, decisamente più importante, costudiva quelle del paradiso.
Tuttavia, oltre a fondersi con il mentore, il guardiano della soglia può fondersi anche con l’ombra. E allora, ecco che potrebbe diventare il capo che deve dare la promozione all’eroe, che lo mette alla prova e crea difficoltà, oppure una collega già presente nell’ufficio quando quest’ultimo viene assunto: in poche parole, un ostacolo che va superato per poter fare a tutti gli effetti parte del “nuovo mondo” e ritagliarsi il proprio ruolo.
L’archetipo del messaggero
Il Messaggero comunica all’eroe l’inizio dell’avventura. A volte è un personaggio. Altre, è l’incidente scatenante (ad esempio il primo incontro fra i protagonisti) ma può essere anche una telefonata o un’email. Un annuncio trovato su un sito. Insomma: qualunque cosa rappresenti la cosiddetta chiamata, l’esortazione ad agire.
Scomodare l’arcangelo Gabriele mi sembra eccessivo, ma di esempi ce ne sono diversi. In “Sense8”, la mia serie Netflix preferita, il messaggero è Jonas, personaggio interpretato dall’attore che faceva anche Sahid in “Lost”: è lui a spiegare a Will il significato delle proprie visioni. In “Manifest”, altra serie che amo, ci sono “chiamate” continue. In Cenerentola, può essere il banditore che dà l’annuncio del ballo. Nei gialli, è sempre chi comunica all’ispettore o commissario di turno che c’è stato un omicidio, cosicché quest’ultimo possa buttare nella spazzatura il panino che sta mangiando e precipitarsi sul posto (ecco: questo è un cliché).
Chi può rappresentare l’archetipo del messaggero in un contesto professionale?
In ogni film o romanzo americano che si rispetti, c’è un messaggero che chiama l’eroe e gli dice: “sei stato licenziato”. Poco dopo, questo esce dall’ufficio con lo scatolone. Il messaggio, però, può essere anche qualcosa di più carino: una promozione, un nuovo incarico…
Se invece vogliamo generare dei conflitti narrativi, il messaggero può essere un seminatore di discordie. Ce ne sono tanti, negli uffici. Persone che sparlano, spettegolano, scassano gli zebedei. In un chick-lit, per esempio, ci potrebbe essere la classica collega con la minigonna e il rossetto che crea zizzania tra la Bridget Jones di turno il sul collega molto “phygo” o direttamente oppure, come accade in molte opere del genere, attraverso una conversazione orecchiata alla macchinetta del caffè. Anche i social, negli ultimi anni, sono diventati messaggeri molto efficaci: i like, le foto, gli stati WhatsApp… veri ambasciatori di disgrazie!
Articolo molto interessante che consiglio di leggere è “Il punto di vista in terza persona limitata“
L’archetipo del mutaforme
L’archetipo del mutaforme, secondo me, si può esprimere in due diversi modi. Può essere un personaggio che cambia il suo ruolo nel corso della storia, che da nemico può diventare amico, o viceversa. Oppure, può essere un personaggio dall’identità indefinita, difficile da focalizzare. Spesso indossa una maschera, cerca di orientare i propri comportamenti e le proprie azioni in modo che gli altri abbiano una ben precisa percezione della sua identità, e non si mostra mai per com’è veramente.
A livello narrativo, questo archetipo è particolarmente efficace, perché genera dubbi e alimenta la tensione. Nella vita vera, è un po’ più difficile da gestire: chi non è abbastanza guardingo, viene fregato e poi si ritrova a scrivere su Facebook: “Odio le perzone falze!!!!!1111!!!!”. Che si tratti di realtà o finzione, comunque, è sempre una bella gatta da pelare, perché mette alla prova l’eroe. Per questo, a volte, anch’esso si fonde con l’archetipo dell’ombra.
Come si esprime l’archetipo del mutaforme in un contesto professionale?
Mi verrebbe da dire che, come evidenziava anche Erwing Goffman in “vita quotidiana come rappresentazione”, nel mondo del lavoro siamo un po’ tutti mutaforme. Basta pensare, per esempio, ai camerieri: magari in cucina ridono, scherzano, prendono in giro i clienti. Poi, passano attraverso le porte basculanti e all’improvviso si mostrano impettiti e seri: “Cosa desiderate, signori?”. Esiste un’etichetta, che spesso ci impedisce di mostrare del tutto la nostra vera faccia. Anzi, vi dirò di più: talvolta è meglio non farlo, se ci si vuole proteggere da pettegolezzi, maldicenze e cattiverie gratuite. Una persona riservata è meno attaccabile.
Tuttavia, ci sono persone che del mutaforme hanno proprio l’indole. Non dicono mai cosa pensano davvero. Passano da una parte all’altra, come bandierine. Si schierano con chi conviene. Si fingono amici, e poi ti pugnalano alle spalle. Insomma… il mondo del lavoro offre moltissimi spunti per questo archetipo narrativo, bisogna solo scatenare la fantasia.
L’archetipo dell’ombra
Spesso si tratta dell’antagonista ma, nei romanzi post-moderni, tale figura tende sempre più spesso a staccarsi da un personaggio reale e ad assumere una funzione psicologica, riflettendo traumi e paure mai superati che mettono l’eroe in pericolo. L’ombra può essere distrutta, annullata, oppure semplicemente accettata e compresa come parte integrante del proprio sé. In ogni caso, che si tratti di una persona reale, di una fobia o di un’infrastruttura mentale da demolire, l’incontro/scontro fra l’eroe e la sua ombra costituisce uno dei principali motori della storia. Per questo motivo, occorre tratteggiare l’ombra con molta cura. E lo so che questo potrebbe sembrare un ossimoro, perché un’ombra è per sua natura indefinita. Quindi, come ne usciamo? Solo con un salto nel buio. Il nostro, e quello dei personaggi.
Come si può esprimere l’ombra in un contesto professionale?
Anche qui, di materiale ne abbiamo a bizzeffe. Se desideriamo focalizzarci sulla trama e sugli eventi, potrebbe essere il capo stronzo (tutti ne hanno avuto uno!) o il collega che desidera farci le scarpe. Se poi si decide di parlare di mobbing professionale, sfondiamo una porta aperta. E, se il protagonista è un dirigente, l’ombra potrebbe essere rappresentato dai sindacati.
Però, c’è un fatto importante, al quale ho già accennato sopra: l’ombra rimanda sempre a una ferita psicologica del protagonista. Se non ci fosse quella ferita di base, il nostro eroe rimarrebbe del tutto indifferente, per esempio, a un collega che gli dichiara guerra. Se soffre per questo conflitto, può essere per svariati motivi, che risiedono in lui e nel suo modo di essere. Qualche esempio: ha un’indole pacifica e vorrebbe andare d’accordo con tutti; l’ultima battaglia che ha intrapreso è finita malissimo; dentro di sé è un bastardo patentato, e non vuole risvegliare questo lato della sua personalità… Insomma: non è tanto importante l’accadimento in sé, ma cosa esso muove nell’anima del protagonista e come lui reagisce. In fondo, tutto ciò che ci urta delle persone, che ci fa impazzire o uscire dai gangheri, ha sempre a che fare con parti di noi che abbiamo rifiutato o che non abbiamo mai voluto comprendere fino in fondo, come nel caso degli omofobi che poi finiscono sul giornale perché sorpresi a un festino con i trans. Quindi, attraverso il confronto con l’Ombra, l’eroe può guarire se stesso e trovare la chiave di un’inevitabile (e fondamentale sul piano narrativo) trasformazione.
L’archetipo dell’imbroglione
L’imbroglione è una delle figure tipiche dei buddy-movies degli anni ottanta. È la spalla comica che crea contrattempi e stimola cambiamenti. È come il matto dei tarocchi: colui che spiazza, confonde, ma può anche offrire al lettore un momento di allegria e distensione prima del climax narrativo. È una macchia di colore sulla tela bianca: disarmante, e immediatamente visibile. Spesso non ha una vera e propria evoluzione, talvolta potrebbe diventare caricaturale, ma dà quella giusta dose di pepe che aiuta certe trame a non diventare deprimenti. Appare come un buffo e scanzonato compagno di viaggio, un individuo irriverente e ironico, grazie al quale l’eroe trova spesso soluzioni impensabili ai propri piccoli problemi quotidiani.
Come si esprime l’archetipo dell’imbroglione in un contesto professionale?
Credo che ciascuno di noi abbia un collega che gioca a fare lo scemo, che si diverte a disegnare cazzi sulle scrivanie altrui, o entra in ufficio cantando. In molti chick-lit, questo collega è gay, e aiuta la protagonista a scegliere i vestiti per l’appuntamento con il capo “phygo”. Nei gialli, potrebbe essere un poliziotto anziano e sovrappeso, tipo Catarella di Montalbano, o un giovane raccomandato come Marco Aragona de “I bastardi di Pizzofalcone”, che vive in un albergo di lusso a spese dei genitori, gira con un paio di occhiali a specchio, si fa chiamare Serpico, dice una cazzata dopo l’altra ma spesso, grazie a una di queste cazzate, risolve il caso.
Per concludere
Vi vengono in mente altri esempi di archetipi?