GLI ERRORI PIÙ COMUNI NEI DIALOGHI
È inutile girarci troppo intorno: i dialoghi rappresentano la bestia nera della maggior parte degli autori emergenti. E non solo. Anche autori che si sono cimentati per molti anni con generi diversi, possono avere difficoltà con i dialoghi nel momento in cui si trovano a lavorare in un romanzo. Questo perché scrivere un dialogo rende necessario parecchi accorgimenti narrativi, che non tutti hanno le capacità – o la voglia – di adottare. Un dialogo infatti deve essere funzionale alla narrazione, essere dinamico, mutare di registro a seconda del personaggio che parla, mettersi al servizio dello show don’t tell… insomma, deve essere gestito con la massima attenzione.
Quali sono gli errori più comuni nei dialoghi? Come si possono evitare?
Vediamolo insieme.
1 – Errori nei dialoghi – abuso di dialogue tag
Molti autori nemmeno sanno che si chiamino così, sebbene li utilizzino di frequente. I dialogue tag – letteralmente “etichette di dialogo” – sono quei verbi come “disse”, “urlò, “domandò”, e affini, utili a modulare la conversazione e a far capire quale personaggio stia parlando. Non sono belli, ma sono utili. A volte. Perché poveretti, questi dialogue tag: vengono sfruttati, abusati, fatti lavorare come se non ci fosse un domani. Invece, vanno usati con parsimonia e lasciati nel cassetto quando non servono. Molto spesso vengono buttati nella pagina come il pepe sulla pasta, ma sono del tutto superflui.
Ecco due esempi di utilizzo smodato dei dialogue tag.
1 a – Il primo caso di abuso di dialogue tag l’utilizzo di quei verbi che hanno lo scopo di far capire il tono della voce. Molto spesso sono pleonastici. Quindi, inutili.
Esempio: Mario irruppe nella stanza sbattendo la porta alle proprie spalle. Si avvicinò a Michele e lo guardò dritto negli occhi, animato da una furia indescrivibile: «Come diavolo ti sei permesso di provarci con mia moglie?» urlò.
In questo caso il verbo “urlare” è superfluo, perché è già chiaro che il personaggio stia urlando. La natura stessa della scena ce lo fa capire. Anche verbi come “ribattere”, “concludere” e “sottolineare” fanno abbastanza schifo, perché impliciti nella battuta stessa. Dunque, vi suggerisco di porvi questa domanda: è chiaro cosa sta provando il mio personaggio? Il suo tono di voce si evince dalla battuta? Se la risposta è sì, lasciate perdere. L’assenza della tag renderà la narrazione molto più fluida e piacevole.
1 b – Secondo caso di abuso dei dialogue tag riguarda la tendenza a usare un numero maggiore di etichette quando si vogliono spezzare delle frasi troppo lunghe. In questo caso, sarebbe auspicabile utilizzare dei beat, ovvero piccoli gesti e azioni che ci aiutano a dinamizzare la scena e a far luce sull’umore dei personaggi.
Esempio:
Mario si avvicinò a Michele. «Ho saputo una cosa da Giulia» disse. «Mi ha detto che sabato scorso, alla festa di Giovanni eri un po’ ubriaco, e quando ti ha accompagnato sul balcone a fumare le hai fatto delle avances molto esplicite» continuò. «Come ti sei permesso di provarci con mia moglie?» concluse.
Proviamo invece con i beat.
Mario si avvicinò a Michele. «Ho saputo una cosa da Giulia» disse, prendendo posto al tavolo di fronte a lui. «Mi ha detto che sabato scorso, alla festa di Giovanni eri un po’ ubriaco, e quando ti ha accompagnato sul balcone a fumare le hai fatto delle avances molto esplicite» Guardò l’amico fisso negli occhi, quasi a voler scovare la verità nelle sue pupille. Poi, tirò un pugno sul tavolo. «Come ti sei permesso di provarci con mia moglie?»
Tutta un’altra cosa, vero?
Sei sei interessato all’argomento prova a leggere “QUALI SONO GLI ERRORI PIÙ COMUNI CON IL PUNTO DI VISTA IN TERZA PERSONA LIMITATA”
2 – Errori nei dialoghi – sospensione nel vuoto
Questo errore di tecnica narrativa è anche chiamato sindrome delle teste parlanti: i personaggi sono burattini che sparano parole sulla carta senza compiere alcuna azione e senza che lo spazio abbia alcuna rilevanza. Ma ogni dialogo, e non solo in narrativa, si svolge in un contesto, in un’ambientazione. Chi parla si muove nello spazio e compie delle azioni. Un semplice “botta e risposta” può essere utile quando usato in modo consapevole per raggiungere determinati effetti narrativi. Se invece dipende dall’inconsapevolezza e/o dalla pigrizia dell’autore, il commento del lettore sarà inequivocabile: che palle!
Esempio:
Paolo entra in cucina e si siede di fronte a Luisa.
«Martina mi ha raccontato tutto.»
«Che cosa?»
«Credo che tu lo sappia già.»
«No, io non so proprio niente.»
«Ha deciso di licenziarsi.»
«Davvero? Io non ne sapevo niente.»
«Io non ci credo, lei ti dice tutto, sono sicuro che lo sapessi.»
Ecco un tipico esempio di dialogo sospeso nel vuoto. Non ci dice nulla di chi sono Paolo e Luisa, di come sia la loro casa, dei loro problemi coniugali. Non ci sono occhiate civettanti, né sguardi in cagnesco. Non si sa se siano in piedi o seduti. Se lei sta spignattando, se lui è seduto a leggere il giornale, o viceversa. Non si sa, soprattutto, cosa stiano provando mentre parlano. Il dialogo è asettico, passivo. Piccolo compito a casa: provate a riscriverlo, arricchendolo di gesti, azioni e dettagli ambientali (attenti però all’infodump!). e vedrete come cambia l’effetto. Riuscirete a comunicare in modo molto più efficace.
3 – Errori nei dialoghi – mancanza di realismo
Premessa: i dialoghi non potranno mai essere del tutto realistici, sennò non si parlerebbe di narrativa, avremmo a che fare con un reportage giornalistico. Tuttavia, ci sono situazioni in cui il rischio di cadere nell’inverosimile è molto elevato. Questo accade soprattutto quando si ha a che fare con la rappresentazione dei sentimenti. Lasciamo perdere la tendenza a utilizzare un linguaggio da soap opera («Ti amerò fino alla morte, morirei per te») che è deleterio anche in un romance, quindi immaginiamo che effetto possa fare in un romanzo di altro genere. Qui stiamo parlando di una situazione diversa: l’autore non è in grado di costruire una scena che metta in luce le emozioni dei personaggi senza doverle per forza veicolare a parola. Quindi, affida tutto a una o più battute di dialogo, che finiscono per risultare posticce e pompose. Eppure, cavoli! La tecnica show don’t tell è una delle prime cose che si impara. Bisognerebbe imparare a usarla con perizia anche nei dialoghi. Provateci, e il testo cambierà sapore.
Esempio:
«Sono stanca morta perché stanotte non ho chiuso occhio, ho appena percorso trenta chilometri in macchina sotto il sole, mi puzzano le ascelle. Odio il mio compagno, e ogni volta che entro in ufficio mi sento male perché tu sei una collega di merda, invidiosa e pettegola, avrei voglia di licenziarmi, lasciare Luca e partire per le Hawaai, ma un lavoro stabile nella società di oggi è molto importante.»
Proviamo a riscriverla diversamente. Fa un po’ schifo perché la sto buttando giù di getto. Probabilmente avrà bisogno di un’editing! Però serve a rendere l’idea.
Laura entra in ufficio e butta la borsa sulla scrivania. Un mugugno sommesso la raggiunge dalla postazione di fronte. Forse un saluto. Forse un insulto. Nota la collega Miranda, un metro e cinquanta di parolacce, fare capolino dallo schermo del suo pc. Nel dubbio, mormora un ciao sommesso e si predispone a ricevere l’ennesimo attacco.
Che, come previsto, dopo due secondi arriva.
«Hai un’aria un po’ sbattuta, stamattina…»
Laura finge di ignorare il sorrisetto compiaciuto della collega. È vero. Non ha dormito. Ha avuto un’estenuante discussione con Luca, e ha passato tutta la notte a rigirarsi nel letto.
«Me ne farò una ragione.» Sospira, distogliendo lo sguardo nell’illusione che le sue occhiaie non si notano. Lo sguardo, scivola su una gocciolina di sudore che campeggia sul braccio, quasi minacciosa. Sebbene siano le nove di mattina, quando è partita da casa la macchina era già un forno. E ora, dopo trenta chilometri nel traffico, dopo che un automobilista fumantino a bordo di una Panda le ha urlato “puttana” per un sorpasso un sorpasso sportivo dettato dall’urgenza di timbrare il cartellino, vorrebbe andare in bagno a darsi una sciacquata al viso, una passata di deodorante e magari di rossetto, per ricordarsi di essere ancora una donna, e non solo l’ingranaggio di una macchina produttiva. Fa per uscire, ma Miranda la blocca.
«Comunque mi piace la tua maglietta. Posso vederla?»
Laura non fa nemmeno a risponderle, che Miranda è già scattata sui tacchi alti, stringendo le chiappe. Si avvicina a lei e le sfiora una manica. Cazzo mi tocchi, vorrebbe urlare.
«Molto, molto bella. Dove l’hai presa?»
Ma che te ne frega! «Da Luisa Spagnoli, giù in centro!»
«Ah!» Miranda raddrizza le spalle, stringe il viso in una smorfia tirata. Ora che può ipotizzare il prezzo, e sa di non potersela permettere perché deve mantenere
un figlio neet quasi quarantenne, sembra non piacerle più. «Comunque ti sta bene. Cioè, abbastanza. Peccato che tu abbia così poco seno.» Gonfia il petto, per mostrare le sue tette. «È un po’ una sfiga non averle, no?»
«Eh già. Sei obbligata a dire cose intelligenti…»
Laura scosta il braccio come se Miranda avesse un morbo contagioso. Ma lei, che non ha capito la battuta, insiste: «Hai saputo cos’è successo alla Giovanna?»
«No, e non mi interessa. Devo andare in bagno.»
Laura passa i cinque minuti successivi seduta sulla tazza chiusa, con le mani nei capelli.
4 – Errori nei dialoghi – infodump
Poiché è un argomento al quale abbiamo dedicato ampio spazio, non credo sia il caso di andare ad aggiungere ulteriori specificazioni, se non che i dialoghi rappresentano il terreno più fertile per la manifestazione dell’infodump. Avete presente il problema del “as you know, Bob”?
Nell’infodump relativo ai dialoghi sento di dover inserire anche i preliminari della conversazione, non necessari in narrativa, o al massimo facilmente affidabili al dialogo indiretto.
Esempio:
“Come stai?”
“Bene, grazie, e tu?”
“Anche io, dai.”
Ecco. Tutto questo non ci serve, se non in rarissimi casi. I personaggi dei dialoghi non salutano, non dicono “pronto”, non usano intercalari che possano rallentare la narrazione. Potreste dire che non è realistico. Forse. Ma è utile.
5 – Errori nei dialoghi – il registro dei personaggi
Ciascun personaggio dovrebbe parlare con un linguaggio adeguato al proprio carattere, alla propria formazione culturale e al contesto in cui si muove. Invece spesso capita che:
– i personaggi utilizzino tutti lo stesso registro, che poi è lo stesso dell’autore;
– uno spacciatore del Bronx parli come un accademico del settecento, o viceversa.
Invece, ancora in fase di progettazione, si dovrebbe focalizzare al massimo le modalità espressive del proprio personaggio, comprendere se usa termini particolari (magari dialettali) e riuscire a conoscerlo talmente bene da sapersi immedesimare del tutto con lui, di modo che non sia necessario “studiare il linguaggio” ma diventi spontaneo utilizzarlo nel testo. Questo è possibile solo con tanto, tanto esercizio.