Scrittura di getto e scrittura consapevole
La scrittura di getto è un argomento che genera ancora molti fraintendimenti, anche tra gli addetti ai lavori. Me ne rendevo conto proprio qualche giorno fa, mentre leggevo il blog di un editor che definiva questo modus operandi anarchico e confusionario. Inconsapevole. Ecco. Ha detto proprio così. Ritiene che lo scrittore debba darsi delle regole mentali molto rigide, per poter veicolare contenuti dotati di logica e coerenza interna.
Sono perplessa. Non credo che rimuginare a lungo e tornare ogni cinque minuti sui propri passi sia sinonimo di consapevolezza. Anzi, spesso chi indugia non fa altro che alimentare le proprie insicurezze. Quindi, sebbene ritenga la posizione del collega rispettabilissima, essa è a mio dire anche lacunosa, e per vari motivi. Innanzi tutto, scrivere di getto non significa sedersi al computer e improvvisare senza la minima idea di ciò che si sta facendo. In secondo luogo, questa persona esprime un parere arbitrario, che non tiene conto dei diversi metodi di scrittura e dei processi mentali individuali. Poiché i nostri cervelli non sono usciti da una catena di montaggio, non si può imporre agli autori un metodo universale. Infine, l’approccio da lui presentato non è lontano solo dalla realtà, ma anche dalla teoria: ci sono fior di manuali che trattano il tema della scrittura di getto, e nessuno di essi esclude la progettazione, la razionalità e la logica. Al contrario, il segreto di una buona scrittura è la capacità di mantenere questi aspetti in equilibrio.
Il concetto di scrittura consapevole è stato usato in modo improprio, e nessuno meglio di me può saperlo, visto che ho dedicato a questo argomento molti articoli su Appunti a Margine. Come forse ricorderete, il metodo teorizzato da Julia Mc Cutchen affonda le sue radici nella filosofia orientale, che esalta il non-attaccamento ai pensieri e mira a integrare le tecniche narrative con i principi dell’olismo e dello zen.
La scrittura di getto è ritenuta la base della scrittura consapevole perché consente di trasformare l’atto creativo in una forma di meditazione. In questo modo, si possono mettere in stand-by tutte le proprie sovrastrutture, per concentrarsi sul presente, e lasciare le emozioni libere di fluire, senza che ci dominino.
McCutchen scrive:
La scrittura consapevole ci consente di scoprire la nostra vera voce e di scrivere ciò che siamo chiamati a esprimere. La nostra vera voce sorge naturalmente quando siamo connessi con il nostro vero io; quando lasciamo andare le paure; quando realizziamo il nostro vero scopo e ci impegniamo a vivere la nostra verità nel mondo, nella scrittura e in ogni ambito della vita.
Tutto qui. La scrittura consapevole non nega l’esistenza né della progettazione, né della revisione. Semplicemente, separa queste fasi da quella della scrittura di getto, che è e rimarrà sempre solo uno strumento per gestire la prima stesura, in piena comunione con il proprio sentire. Rileggere ogni riga, ogni frase, cancellarla e poi riscriverla prima di essere arrivati alla fine di una sessione creativa, crea un black-out. La persona si focalizza sulla forma, e si dimentica di trasmettere ciò che le sta a cuore. Invece, con la sdg può prima stendere i contenuti sulla pagina, poi distaccarsene, e infine tornare sui propri passi con maggior lucidità, in piena connessione con la propria mente, anziché con il proprio mentale.
Mente e mentale non sono sinonimi, per lo Zen.
La mente ha a che fare con le nostre facoltà logico-cognitive e può fornirci un importantissimo sostegno durante le sessioni di lavoro, a patto che sia lei al nostro servizio, e non noi al suo.
Il mentale invece racchiude in sé tutte le nostre sovrastrutture, le convinzioni limitanti, i timori, le paranoie e tutto ciò che crea un blocco, ci fa autocensurare e impoverisce i nostri testi. Posso affermare con sostanziale certezza che il 90% degli errori che correggo (compresi i miei) arrivano da lì.
Partiamo dal presupposto che, se un autore decide di rivolgersi a un editor, conosce già l’ABC della narrativa. Il mio compito non è quindi correggere gli errori grammaticali, ma aiutare lo scrittore a tirare fuori il meglio di sé. Con il tempo, ho imparato a intercettare l’individualità che si nasconde tra le righe, a interpretare le difficoltà e i problemi alla luce della soggettività di chi scrive. La scrittura, dopo tutto, nasce dalla sensibilità dell’autore, non da regole matematiche, ed è inevitabile che lì si nascondano le magagne più grosse. Se volete un esempio concreto, leggete la recensione scritta da Salvatore Anfuso nella pagina “Dicono di me”: lui evidenzia molto bene come io sia riuscita a scorgere le sue insicurezze tra i sottintesi del racconto che aveva scritto. Ho capito che aveva paura del giudizio del lettore dalla scelta di termini politically correct, da come disponeva la punteggiatura all’interno delle frasi. Il testo era tremante. L’abbiamo migliorato. E i racconti che sono seguiti non presentavano più lo stesso problema. Un caso analogo è quello di una ragazza che faceva ricorso a un linguaggio e a concetti troppo semplici per le sue potenzialità, quasi elementari. Dopo aver affrontato l’argomento su Skype, ho scoperto che era stata offesa in passato, a causa di uno scritto molto complesso. Un lettore, le aveva dato della maestrina. Da quel giorno, aveva deciso di scrivere testi che fossero alla portata di tutti. Anche troppo. Perché questa decisione l’aveva portata a sminuirsi, a mostrarsi meno competente di quanto fosse in realtà.
Con un approccio come quello tanto gradito al mio collega di cui sopra, è il mentale che viene nutrito, non certo la mente, e tanto meno quello che lo Zen definisce “io consapevole”. Focalizzarsi su ogni singola parola subito dopo averla scritta porta l’autore a mettersi in discussione. Questo non sarebbe un male, se si riuscisse a mantenere un atteggiamento costruttivo. Ma l’atteggiamento costruttivo può esserci solo con una revisione a freddo, dopo aver messo la giusta distanza tra sé e il proprio testo. Quando si è ancora dentro l’emozione, si finisce per giudicarla – e giudicarsi – con scarsa lucidità. Il risultato è quindi un continuo scriversi addosso. Prima affermo, e poi mi tiro indietro: che senso ha?
Se uno dei “miei” autori si sente a proprio agio con questo atteggiamento, non posso certo obbligarlo ad adottare un metodo che non lo rispecchia. Sarò quindi io ad adattarmi a lui. Però il mio cervello ha un funzionamento diverso. Non elaboro la scaletta perché intanto so che non riuscirei a rispettarla, ma progetto anch’io i miei scritti: prendo appunti, cerco di chiarirmi le idee, sciolgo ogni dubbio, mi domando più volte quale sia il mio messaggio, e come voglia trasmetterlo. Non appena mi sento pronta, scrivo di getto la prima stesura, senza cancellare nulla, senza tornare a rileggermi. Per non fermare il flusso di coscienza, spengo il wi-fi e metto il cellulare in modalità aereo (mia mamma non si è ancora abituata a ‘sta cosa…) così nessuno mi disturba su WhatsApp, Facebook e affini. Se non ho scadenze stringenti, lascio decantare il testo come il vino per un paio di giorni. Dopo di che, lo rileggo e lavoro di fino. Taglio, aggiungo, elimino i refusi, cerco nuove parole per esprimere i concetti poco chiari. Revisiono, dunque. Ebbene sì. Perché scrivere di getto non significa dire “buona la prima”, ma trasformare i punti di domanda in punti esclamativi usando la propria intuizione, la forma di conoscenza più elevata che esista. Non potrei agire diversamente, perché credo che l’ispirazione non sbagli mai. Quando c’è una reale connessione tra la mente e l’emozione si è perfettamente presenti a se stessi, lucidi come non si può diventare nemmeno rimuginando un giorno intero sui propri intenti e le proprie mancanze.
Ciao Chiara, condivido. Se non scrivessi di getto non potrei /saprei scrivere. Come può la creatività essere imbrigliata dalle regole? Altra cosa sono le revisioni. Quelle sono il vero “lavoraccio”
Ciao Elena, scusami il ritardo nella risposta, ma non avevo ricevuto notifica del tuo commento. Inutile dire che sono pienamente d’accordo con te. 🙂